Concorso 2011 – Traccia di diritto commerciale: cosa ne penso!

Concorso 2011 – Traccia di diritto commerciale: cosa ne penso!

25 febbraio 2001: Traccia per atto tra vivi in materia di diritto commerciale (Concorso D.D.G. 28 dicembre 2009 pubblicato nella G.U. n. 3 del 12 gennaio 2010 – 4° serie speciale)

In data 10 luglio 2010 si apre in Roma la successione del sig. Tizio, alla quale vengono chiamati per legge la moglie Filana ed i figli Caio e Caietto, quest’ultimo di anni 16. Nell’asse ereditario è compresa un’azienda, di cui il de cuius era unico titolare corrente in Roma ed avente ad oggetto la produzione e la commercializzazione di mobili per arredamento, gestita sotto forma di impresa familiare. Dopo la morte di Tizio l’attività dell’impresa è stata provvisoriamente proseguita, a seguito di regolare autorizzazione da parte del giudice competente, come impresa familiare gestita da Caio. Gli eredi giungono alla determinazione di regolarizzare la loro struttura imprenditoriale ed a tal fine si rivolgono al notaio RR di Roma, illustrando allo stesso la necessità di costituire una struttura societaria che garantisca l’integrità patrimoniale dei soci. Il candidato, assunte le vesti del Notaio RR, date per concesse tutte le autorizzazioni richieste dalla legge, nonchè allegato ed approvato il relativo statuto sociale, rediga l’atto necessario a soddisfare le esigenze dei richiedenti mediante la trasformazione della comunione d’azienda gestita in impresa familiare in una società a responsabilità limitata ex art. 2500 octies c.c., nella quale Caio assuma la carica di amministratore unico fino a revoca. La società avrà un capitale sociale di euro 230.000,00 di cui euro 140.000,00 coperti dal patrimonio netto dell’azienda (escluso l’avviamento) ed euro 90.000,00 utilizzando somme liquide comprese nel patrimonio ereditario. Il candidato tratti della comunione d’azienda costituita da impresa familiare a seguito di comunione ereditaria incidentale nell’ambito della quale vi sia un minore; della trasformazione eterogenea da comunione d’azienda a società a responsabilità limitata e degli adempimenti che vi sono correlati.

Noto, con sorpresa, ma anche con soddisfazione, che la traccia presenta un intenso mix di problematiche: non solo societarie, ma anche successorie e di volontaria giurisdizione. Quest’ultima, come noto, non è più oggetto di prova scritta “dedicata” al concorso dal 2006 (d. lgs. 24/4/06 n. 166), ma è materia di strettissima attinenza notarile (unico caso di ius postulandi affidato al notaio), indi è sempre bene avere una solida preparazione, anche nella prospettiva dell’orale, ove invece è, sempre dal 2006, prova specifica.

L’atto richiesto è, evidentemente, una trasformazione da comunione d’azienda a società a responsabilità limitata.  Le richieste di parte teorica lo “suggeriscono” , qui con maggiore evidenza rispetto a quanto accade nella traccia inter vivos, in cui la parte teorica pone diversi argomenti, tutti “papabili” per la soluzione.

Logicamente, partirei proprio dalla comunione d’azienda. Da dove deriva? Nella stragrande maggioranza dei casi, la comunione d’azienda deriva da successione ad un imprenditore: l’impresa non è un fenomeno che si “trasmette” automaticamente, non esiste la c.d. successione nell’impresa, ma soltanto la successione “nell’azienda”; pertanto, alla morte dell’imprenditore, se vi sono più eredi o legatari, si crea una “comunione sull’azienda”.

Quando all’apertura della successione si procede all’esercizio dell’attività per mezzo dell’azienda organizzata, si ha “impresa” nuova civilisticamente.

Ora, se l’esercizio dell’impresa appartiene a più eredi, secondo orientamento costante della Cassazione (Cass. 3195/97; Cass. 1391/99), la comunione d’azienda diventa “società di fatto”. Si resta in “comunione” ove si sospenda l’attività d’impresa e ci si limiti a gestire i beni aziendali senza attivarli.

Quando si esce dalla dimensione “statica” che caratterizza la comunione (c.d. mero godimento, cfr. art. 2248 c.c.) e si “attiva” l’impresa per mezzo dei beni aziendali oggetto della comunione, ci si deve porre questo problema: chi esercita l’impresa?

Se l’impresa è esercitata da tutti i contitolari, si crea, anche in assenza di pattuizioni, una società di fatto, che secondo l’insegnamento fondamentale di Campobasso, per le attività commerciali, è la società in nome collettivo irregolare (unica società commerciale per la quale non occorrano nè forma scritta, pubblica o meno, nè particolari indicazioni sulle responsabilità dei soci, essendo tutti illimitatamente responsabili).

Solo se l’impresa è esercitata da un solo soggetto, non si crea sicuramente società, ma si pone il problema: a che titolo tale soggetto esercita impresa utilizzando beni aziendali non soltanto suoi? E’ pacifico che in materia d’impresa e d’azienda i concetti di titolarità e proprietà non necessariamente si trovano in corrispondenza: l’imprenditore può non essere proprietario dei beni aziendali, come il proprietario dei beni aziendali può non essere imprenditore.

In questi casi, soccorrono alcune figure creative di diritti personali di godimento: comodato ed affitto d’azienda, in particolare.

Ben può essere, dunque, che quell’erede che decida di continuare l’attività imprenditoriale del de cuius, utilizzi l’intera azienda, sulla base di un comodato (di regola tacito, siccome mai soggetto ad onere di forma), o di un vero e proprio affitto di azienda. Il comodato si enuclea, generalmente, da un atteggiamento di “tolleranza” da parte dei contitolari non imprenditori, che non si oppongono all’utilizzo da parte dell’unico imprenditore, ferma restando la possibilità di liberare i beni in qualsiasi momento (cfr. art.1810 c.c. per il comodato senza determinazione di durata).

Come si pone, rispetto a questo discorso, un’impresa familiare?

Nell’impresa familiare sono coinvolti, generalmente, più soggetti: quanti sono gli imprenditori?

Normalmente, l’impresa familiare è un’impresa individuale, rispetto alla quale l’imprenditore unico è “affiancato” da collaboratori, parenti entro il terzo grado od affini entro il secondo, che vengono retribuiti con una partecipazione agli utili ed ai beni acquistati, agli incrementi ed all’avviamento in proporzione a quantità e qualità del lavoro svolto.

Non è escluso dalla giurisprudenza che il titolare sia in società con altri (es. il padre di famiglia è accomandatario di s.a.s. o socio di fatto con altri, Cass. 19116/04): in tali casi i collaboratori partecipano ai risultati secondo la quota del titolare. Ciò che però va tenuto fermo è che i collaboratori, nell’impresa familiare, non sono MAI imprenditori, e quindi l’imprenditore, al vertice, dev’essere unico (salvo, forse, il caso dell’impresa coniugale). Anche ove si ammettesse, al vertice, una società, il familiare che sia imprenditore e quindi socio, smette di essere collaboratore.

Ora, nel caso della traccia, soltanto Caio, figlio maggiorenne e capace di agire, ha continuato l’impresa.

Eredi sono la moglie di Tizio, Tizia, e i due figli, Caio e Tizietto, quest’ultimo minore. Ai sensi dell’art.   581 c.c. , le quote sono 1/3 ciascuno.

Importante è, secondo me, anche in motivazione, il discorso sull’inesistenza della successione d’impresa: Caio non “continua” l’impresa del padre, se non lato sensu, perché non si succede nell’impresa (altrimenti tutti gli eredi sarebbero automaticamente imprenditori iure hereditatis), ma la “ripristina” a proprio nome.

Ciò premesso, mi sarei posto il problema di cui in precedenza: a che titolo Caio esercita, da solo, l’impresa? E poi: quali sono le autorizzazioni giudiziali del giudice competente cui allude la traccia?

Qui mi vengono in mente due strade.

a)  L’eredità non è stata ancora accettata

La legge parla di chiamata legale dei successori e di continuazione “provvisoria”. Sembra alludere alla fase antecedente l’accettazione dell’eredità.

Prima dell’accettazione dell’eredità, i chiamati ad essa per legge o per testamento, ai sensi dell’art. 460 c.c., possono compiere atti “conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea” sui beni ereditari, con autorizzazione dell’autorità giudiziaria, e possono vendere i beni nei soli casi in cui i beni non si possono conservare o quando la conservazione comporti dispendio. La dottrina pacificamente estende la norma ad atti eccedenti ordinaria amministrazione diversi dalla vendita. In questo caso, anche per la continuazione dell’impresa, occorrerebbe autorizzazione: la continuazione potrebbe essere un mezzo conservativo, volto ad evitare la disgregazione aziendale e la dispersione dei beni, con evidente danno all’economia e alla produttività in genere, ai creditori e ai legatari dell’eredità, e ai futuri eredi stessi. L’autorizzazione necessaria sarebbe quella di cui all’art. 747 c.p.c., ossia quella del Tribunale delle successioni. Non è necessario il parere del giudice tutelare, in quanto il minore chiamato all’eredità non è ancora erede, indi i beni non sono di sua proprietà ancora.

Questa è una prima ipotesi interpretativa. La traccia però dà un termine, il 10 luglio 2010, di apertura della successione, e sembra presupporre il possesso dei beni ereditari (sia per Caio, che continua l’impresa, sia per Tizia e Tizietto, che vi collaborano). Assumono quindi rilievo i termini di cui all’art. 485 c.c. (3 mesi più eventuali ulteriori 3), decorsi i quali il possessore è erede puro e semplice. La Cassazione assimila al “possesso” citato dalla norma anche la mera detenzione, ed presumibile che i collaboratori all’impresa familiare abbiano anche la detenzione dei beni.

Per il minore Tizietto però tali termini non decorrono, dovendo egli per forza accettare con beneficio d’inventario.

In ogni caso, comunque, il problema sembra risolto dalla traccia: essa, poco più avanti, definisce Caio, Tizia e Tizietto come “gli eredi”, il che autorizza a considerarli accettanti, Tizietto naturalmente con il beneficio d’inventario. Indi probabilmente, ma non necessariamente, è avvenuta la continuazione provvisoria ante accettazione;  al momento dell’atto di trasformazione i tre chiamati sono invece già eredi.

Mi pare aderente alla traccia ipotizzare già avvenute le accettazioni, magari dopo un periodo di continuazione.

b) L’eredità è stata già accettata

Dopo l’accettazione, Caio assume piena e libera disponibilità dei beni per la sua quota, e così anche Tizia, ma non Tizietto. Il minore, infatti, non può che accettare con beneficio d’inventario, ai sensi dell’art. 471 c.c., per cui tutti gli atti successivi di disposizione richiedono l’autorizzazione giudiziale, a pena di decadenza (art. 493 c.c.). Anche qui la competenza è del Tribunale delle successioni, stavolta senza dubbio su parere del giudice tutelare, in quanto, per effetto dell’accettazione, i beni sono diventati di proprietà del minore, seppur pro quota.

Le autorizzazioni giudiziali potrebbero allora essere legate alla presenza del minore? Questo è un punto dubbio, a mio parere.

Le strade si separano:

a) se Caio ha esercitato impresa solo provvisoriamente prima delle accettazioni, con autorizzazione ai sensi dell’art. 460 c.c., ed ora, accettata l’eredità, si vuol procedere alla trasformazione, direi che non occorrono ulteriori autorizzazioni per l’esercizio d’impresa legate alla presenza del minore, se non quelle strumentali alla decisione di trasformazione. Se l’accettazione è stata appena perfezionata, non vi è spazio per ulteriori vicende legate all’impresa. Questa sembrerebbe la strada più verosimile.

b) se Caio ha esercitato l’impresa dopo le accettazioni,  il minore ha dovuto consentire tale esercizio anche con la sua quota di beni. E’ chiara la traccia nel dire che Caio eserciti la stessa impresa del padre Tizio, per cui dobbiamo pensare che i beni aziendali sono gli stessi. Abbiamo visto, in precedenza, che il singolo erede non ha di per sé la disponibilità dei beni degli altri per esercitare impresa, ma deve giustificare tale disponibilità con un titolo: il minore, allora, può aver concesso al fratello tale disponibilità mediante un comodato, od un affitto d’azienda. Tale autorizzazione sarebbe quella di cui all’art. 747, primo e secondo commi, c.p.c., realizzando la concessione di un diritto su bene dell’eredità beneficiata (la quota di titolarità dei beni aziendali appartenente al minore) per cui occorre, nel contempo, tutelare il minore, da un lato, e creditori e legatari, dall’altro. Non è necessaria ulteriore autorizzazione ai sensi dell’art. 320 c.c.. Le Sezioni Unite (1593/81) si sono pronunciate in favore di un unico provvedimento, quello ai sensi dell’art. 747 c.p.c., risolvendo una lunga questione, e giustificando tale scelta con l’osservazione che comunque l’incapace è tutelato dalla richiesta di parere del giudice tutelare. Perché questa autorizzazione? Perché è l’unica che consente al minore di disporre dei beni aziendali senza diventare, egli stesso, imprenditore. Quindi, se si afferma che l’esercizio provvisorio di Caio sia successivo all’accettazione, ed in previsione di future deliberazioni, occorrerebbe un’autorizzazione per il minore.

In entrambi i casi, non mi sembra che il minore debba richiedere l’autorizzazione a continuare l’esercizio dell’impresa commerciale (art. 320, quinto comma, c.c., che richiede l’autorizzazione del Tribunale ordinario su parere del giudice tutelare): egli,  anche se collabora all’impresa familiare, in quanto fratello dell’imprenditore (parente in linea collaterale in secondo grado), non è imprenditore; anzi, se lo fosse (come possibile), si avrebbero, per l’azienda ereditaria, due imprenditori in esercizio collettivo, che per quanto detto darebbe vita ad una società commerciale di fatto.

In altre parole, se il minore esercitasse l’impresa, non avremmo più trasformazione di comunione d’azienda, ma trasformazione di società commerciale di fatto (s.n.c.) i cui soci sarebbero Tizietto e Caio. Invece dobbiamo avere una comunione sull’azienda di tutti i coeredi, che non viene scalfita in quanto c’è un solo imprenditore, Caio.

Un aspetto importante da valutare, però, è la partecipazione del minore all’impresa familiare: l’esercizio dei diritti in quanto collaboratore richiede autorizzazioni? Può darsi che l’autorizzazione necessaria sia quella di cui all’art. 320, quinto comma, c.c.?

Personalmente, non credo. I diritti che l’incapace esercita nell’ambito dell’impresa familiare non richiedono, secondo la dottrina, autorizzazioni. La partecipazione quale collaboratore non determina, in particolare, l’acquisto della qualità d’imprenditore, ed in nessun caso espone al rischio d’impresa (indi, a perdite o responsabilità illimitata). Anzi, presupposto essenziale per la partecipazione a tal titolo è che il minore NON SIA imprenditore, ma collaboratore di altro soggetto imprenditore. L’evidente ratio dell’autorizzazione alla (sola) continuazione dell’esercizio d’impresa commerciale è tutelare l’incapace nel momento in cui si dedica ad attività economica, assumendo il relativo rischio d’impresa, compresa la possibilità di un fallimento.

Proprio per questo si ammette la sola “continuazione” d’impresa e non la “creazione” ex novo: l’autorità giudiziaria deve poter valutare la consistenza e l’avviamento dell’impresa prima di consentire ad un soggetto incapace (indi, da tutelare), di assumerne la gestione e quindi la responsabilità.

In definitiva, sembra proprio che in un caso del genere si tenga in vita un’ impresa individuale, seppur organizzata come impresa familiare; la trasformazione non riguarda l’impresa individuale (tale discussa ipotesi è peraltro esclusa dalla traccia che parla di “regolarizzare” l’impresa gestita dagli eredi), ma la comunione tra gli eredi, e ciò è possibile soltanto se c’è non c’è impresa o se c’è un solo soggetto imprenditore. Il riferimento alla “regolarizzazione” potrebbe far pensare a un’altra figura “classica”, la “regolarizzazione di società di fatto”, ma più volte la traccia precisa che si vuole regolarizzare “l’impresa gestita in forma di impresa familiare”, indi con unico imprenditore al vertice.

Si tratta di trasformazione eterogenea, disciplinata dall’art. 2500 octies c.c.: occorre dunque l’unanimità dei consensi, compreso quello del minore, su cui ci sofferemeremo in seguito.

Quanto alla responsabilità illimitata per le obbligazioni contratte fino all’assunzione di effetti della trasformazione,  qualsiasi debito aziendale dovrebbe riguardare i contitolari con illimitata responsabilità. Occorre anche qui distinguere:

a) se si è trattato di mero esercizio provvisorio, le obbligazioni gravano l’eredità, e per effetto dell’accettazione i coeredi in un momento successivo (per Tizietto, con beneficio d’inventario);

b) se si è trattato di esercizio d’impresa anche successivo all’accettazione, occorre tener conto che unico ad aver esercitato l’impresa è Caio, e secondo la dottrina prevalente la responsabilità per i debiti aziendali contratti nella vigenza di un affitto o comodato d‘azienda resta soltanto a carico dell’affittuario, ferma restando la responsabilità “esterna” di chi è titolare della proprietà, ai sensi dell’art. 2560 c.c.. Tali aspetti però richiedono troppe informazioni che la traccia non fornisce, per cui era sufficiente fare generico riferimento al permanere della responsabilità a carico dei condividenti, rammentando il beneficio d’inventario in favore di Tizietto almeno per le obbligazioni sorte prima della morte di Tizio, e rinviare ad eventuali ulteriori pattuizioni sul punto contenute nella concessione in godimento dell’azienda a Caio. Come si vede, questa opzione interpretativa comporta diversi problemi pratici in più, anche se mi pare assolutamente fondato, tenendo conto degli elementi dati dalla traccia.

Resta un altro problema, ancora, di volontaria giurisdizione: chi interviene, per il minore, a prestare il consenso alla trasformazione?

La trasformazione può considerarsi atto eccedente l’ordinaria amministrazione, in quanto, in senso lato, si “dispone” della quota di comproprietà e si ottiene “in cambio” una quota sociale. Alcuni assimilano la vicenda a una permuta, altri ad un atto di conferimento: ciò che è certo, è che si tratta di atto di straordinaria amministrazione. Inoltre, nel caso di specie, si procede a un esborso di denaro (investimento di capitali) facente parte dell’asse ereditario a titolo di “conferimento” per integrare le quote. Legale rappresentante del minore, nel caso di specie, è la madre Tizia, su cui si è concentrata l’intera potestà dopo la morte del padre. Tizia deve munirsi dell’autorizzazione giudiziale ai sensi dell’art. 747 c.p.c., incidendo su sostanze di provenienza ereditaria accettate con beneficio d’inventario. Anche questa fattispecie, sicuramente, non è continuazione d’impresa commerciale: è vero che di fatto il minore si troverà socio di una società commerciale, ma l’autorizzazione in parola, come visto, presuppone che egli sia imprenditore o comunque illimitatamente responsabile ed a rischio di fallire; basti leggere, al riguardo, l’art. 2294 c.c., che richiede le autorizzazioni per la continuazione d’impresa commerciale per la s.n.c., mentre non sono richieste in alcun caso per l’assunzione di partecipazioni a responsabilità limitata.

Ora, siccome anche Tizia sta entrando nella medesima società, sussiste conflitto d’interessi ove voglia intervenire per il figlio?

La dottrina ritiene che, ove vi sia unidirezionalità dell’operazione, ossia quando rappresentante e rappresentato rappresentino unico centro di interessi (es. vendita di usufrutto e nuda proprietà), il conflitto non sussista, neppure in potenza, in quanto il legale rappresentante persegue interesse analogo a quello dell’incapace e non vi è pericolo che compia scelte per danneggiarlo determinate da un suo interesse personale.

Inoltre, nei contratti con comunione di scopo è tendenzialmente esclusa la sussistenza del conflitto, in quanto non c’è alcuna “corrispettività” tra le prestazioni. La società è un contratto associativo, per cui non vi sarebbe autentico “conflitto” di interessi tra i contraenti: ciò porterebbe a consentire l’intervento di Tizia sia in proprio che in legale rappresentanza del figlio minore, e ad escludere la necessità del ricorso ai rimedi di cui all’art. 320, ultimo comma, c.c. (nomina del curatore speciale).

La trasformazione, inoltre, non comporta valutazioni economiche che pongano madre e figlio in conflitto: le quote di partecipazione sono legalmente determinate in proporzione alle quote di comunione; il successivo esborso di denaro e tutte le valutazioni sui patti sociali e sulla formazione del capitale coinvolgono Tizia e Tizietto nella stessa misura e nello stesso modo, per cui non parrebbe porsi conflitto.

Quest’ultima osservazione però è vera solo in apparenza: le quote sociali non deriveranno soltanto dal valore dei beni aziendali conferiti, ma anche da conferimenti effettuati al momento della trasformazione. In questa fase si verifica un fenomeno non dissimile da quello che si ha in sede di costituzione della società, e non è affatto scontato che madre e figlio conferiscano la stessa somma, per mantenere invariate le quote di 1/3 ciascuno. Si tratta di una valutazione discrezionale, che la madre dovrebbe compiere per sè e per il figlio nel medesimo atto, il che rende preferibile l’intervento di un curatore speciale.

In ogni caso questa seconda soluzione ha sicuramente un pregio “concorsuale”: al massimo si  presuppone un passaggio “inutile”, ma l’atto è valido senza ombra di dubbio; ove al contrario si faccia intervenire  la madre, si rischia l’invalidità (art. 322 c.c.), ove la soluzione scelta sia quella più rigorosa.

L’intervento del curatore speciale non pone, in questo caso, il problema della competenza per l’autorizzazione giudiziale: quest’ultima è comunque di competenza del Tribunale delle successioni, su parere del giudice tutelare. L’orientamento della Cassazione a Sezioni Unite, come già detto, afferma la prevalenza di questa autorità su quella “dedicata” all’incapace, in quanto sono coinvolti gli interessi di creditori e legatari.

Se per i meccanismi del diritto societario la trasformazione è operazione “neutra”, meramente “continuativa”, la maggiore dottrina continua a ritenere l’operazione, dal punto di vista della volontaria giurisdizione, come una “disposizione” della quota di comunione, che si “trasforma” in quota di società.

Quanto alle pattuizioni richieste nei patti sociali, non vi sono problemi a rendere Caio amministratore fino a revoca: nella società a responsabilità limitata non sono previsti limiti di durata per ciascuna nomina, a differenza di quanto accade nelle s.p.a.. Ciò potrebbe incidere, al più, sulle successive ipotesi di revoca: secondo la dottrina, la nomina a tempo indeterminato consente la revoca anche in assenza di giusta causa, senz’obbligo di risarcimento dei danni.

Stante l’importo del capitale superiore ad Euro 120.000, è obbligatoria la nomina del collegio sindacale, ai sensi dell’art. 2477, secondo comma, c.c.. I Sindaci evono avere i requisiti di cui all’art. 2397 c.c.. E’ opportuno qui curare l’adempimento di cui all’art. 2400, ultimo comma, c.c.: al momento della nomina i sindaci dichiarano gli incarichi già ricoperti presso altre società all’assemblea. All’atto della nomina si determina il compenso.

Quanto al capitale, diffusa nella prassi è l’ipotesi in cui il netto conferibile sia inferiore al capitale legalmente o volontariamente fissato: si procede, in questi casi, a “nuovi conferimenti” contestualmente effettuati dai soci mediante versamenti proporzionali alle loro quote (od anche non proporzionali, ma non è questa una richiesta della traccia).

Il capitale di 230.000 è qui liberato senza difficoltà per Euro 140.000, pari al valore dei beni aziendali. L’esclusione dell’avviamento non significa che esso non può conferirsi: anzi, di regola, esso è la componente economica più rilevante; esso però risulta in bilancio soltanto nei casi in cui sia acquistato dalla società “a titolo oneroso” (art. 2426 n.6); occorre ricordare che la trasformazione è, nella concezione del riformatore del 2003, operazione economicamente neutra, non idonea dunque a far emergere il plusvalore di avviamento dalle risultanze contabili; resta dunque l’avviamento un valore inespresso. Si potrebbe avere qualche dubbio circa l’applicabilità di tale principio in caso di trasformazione di comunione d’azienda, riconoscendosi in quest’ultima operazione una fattispecie simile ad un conferimento: ciò però investe il più generale problema della ricomprensione di questo “caso limite” tra le figure trasformative; al riguardo si è detto spesso in dottrina che è il legislatore ad aver compiuto questa scelta, nell’ottica della conservazione dei centri produttivi tenuta presente dalla riforma, e quindi ad avere imposto il principio neutrale di continuità di cui all’art. 2498 c.c. anche a questo caso.

Per Euro 90.000 si può procedere  subito al versamento: non si versa in fase costitutiva, per cui è possibile procedere al versamento presso le casse sociali. Per lo stesso motivo non inserirei l’ammontare delle spese: non si tratta di costituzione.

Il versamento va effettuato in quote uguali: l’azienda spetta in quote uguali per successione, e in assenza di indicazioni contrarie si deve ritenere che i condividenti abbiano quote uguali nella s.r.l.

E dire che sono solo alcuni spunti!

La bellezza di questo caso è che genera un argomentare, un discorrere continuo, l’apertura di più strade astrattamente immaginabili nel rispetto della legge.

In bocca al lupo!